
Un buon vino: alternativa alla solitudine dello smartphone
Aristotele definisce la felicità (eudaimonia) come il fine ultimo dell’agire umano. Essa non si riduce al piacere individuale, ma si realizza nella vita buona vissuta nella polis, nella relazione con gli altri.
In questo quadro, la philia (amicizia) non è un accessorio, ma una condizione strutturale della felicità.
La modernità, invece, ha trasformato la felicità in una dimensione individuale e soggettiva, legata al rapporto persona–cosa. Tuttavia, la gioia e la realizzazione del sé non si danno mai in solitudine: la prima si moltiplica condividendosi, la seconda trova compimento solo nel riconoscimento reciproco.
Anche la filosofa Martha Nussbaum ha ripreso la tradizione aristotelica, sottolineando come le capabilities per una vita felice implichino inevitabilmente relazioni e condizioni sociali.
Il vino come esperienza relazionale
In questo senso, il vino rappresenta un simbolo potente: attraverso il rito del bere insieme, genera un’esperienza di comunione che supera l’individualità e restituisce agli attori un sentimento di unità.
La modernità capitalista tende a ridurre beni e pratiche alla loro dimensione utilitaristica. Eppure, come ricorda Georges Bataille, l’uomo ha bisogno anche di pratiche improduttive, di esperienze che sfuggono alla logica del profitto.
Il vino appartiene proprio a questa sfera: non è “utile” in senso stretto, ma è una forma di gratuità e relazione. È in questa sospensione dall’utile che il vino rivela la sua prossimità alla felicità.
Il vino come antidoto alla solitudine digitale
Oggi, nonostante l’aumento dei mezzi di comunicazione, cresce la percezione di solitudine. Come osserva Sherry Turkle in Alone Together (2011), la connessione permanente tramite smartphone genera relazioni frammentarie, incapaci di offrire autentico riconoscimento.
Il gesto del bere insieme, invece, richiede presenza, attenzione e un qui e ora condiviso. Il vino invita a un tempo lento, rompe l’accelerazione contemporanea e si configura come antidoto simbolico e pratico all’isolamento digitale.
Il dialogo come forma di riconoscimento
La dimensione relazionale del vino si amplifica quando esso diventa oggetto di racconto e conversazione. Discutere delle sue origini, evocare i territori, riconoscere aromi e sfumature: sono pratiche che richiedono ascolto e attenzione reciproca.
Questo dialogo intorno al vino costruisce uno spazio di riconoscimento: ciascuno porta la propria percezione e sensibilità, e nell’incontro di queste esperienze nasce una comunità momentanea, una piccola forma di felicità condivisa.
Il vino, dunque, è più di una bevanda: è un mezzo di relazione, di parola e di scambio — un invito a riscoprire la dimensione umana e conviviale che la società digitale tende a dissolvere.